La lunga lotta alle mutilazioni genitali femminili
Una pratica antichissima e radicata, una “tradizione” che colpisce bambine, adolescenti, donne, mettendo a repentaglio non solo la loro dignità, ma anche la loro stessa vita. Quello delle mutilazioni genitali femminili/escissione- che consistono nell’asportazione o nell’alterazione dell’apparato genitale esterno- è un fenomeno non ancora del tutto sconfitto: secondo quanto riportato sul rapporto “Female Genital Mutilation/Cutting: a statistical overview and exploration of the dynamics of change” di Unicef, più di 125 milioni di donne vi sono state sottoposte. E il futuro non sembra roseo: i dati parlano di 30 milioni di bimbe che rischiano di subirla nei prossimi dieci anni. Gravi sono le conseguenze sul piano fisico e psichico. Nel momento in cui le mutilazioni vengono praticate- solitamente dalle donne più anziane, spesso in contesti igienico-sanitari non idonei- possono causare emorragie, infezioni e problemi non solo all’area genitale, ma all’intero organismo: in alcuni casi, la morte. A lungo termine, subentrano dolori cronici, mestruazioni dolorose, rapporti sessuali difficili e traumatici, infezioni all’apparato urinario, possibile infertilità, senza contare le complicazioni a cui possono andare incontro durante il parto: le mutilazioni genitali sono associate ad un rischio più alto di mortalità del neonato. Sul piano psicologico, sono collegate a disturbi di ansia, depressione, disturbi da stress post-traumatici e compromettono la sfera affettiva e sessuale della donna.
Molto è stato fatto per metterla al bando: nei paesi africani in cui è più diffusa, ormai da tre decenni sono state attuate della campagne volte a constastarla. Nel 2003 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha proclamato il 6 febbraio come Giornata Internazionale per la tolleranza zero contro le mutilazioni genitali femminili; nel dicembre 2012, l’ONU ha approvato una risoluzione contro questa pratica, invitando tutti gli stati membri a condannarla. Tra le migranti che vivono in Europa, circa cinquecentomila hanno subìto delle mutilazioni, e centottantamila sono quelle a rischio ogni anno-anche se elaborare una casistica precisa è difficile. Diffusa principalmente nell’Africa subsahariana e in alcuni paesi della penisola arabica, è arrivata anche in Italia con l’immigrazione: con la legge n.7 del 2006, la legislazione del nostro paese ha istituito il divieto di praticarla. “Le mutilazioni non avvengono solitamente in Italia o in Europa, o almeno non abbiamo notizie in questo senso“- spiegano dall’AIDOS, l’Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo, una Ong che da più di vent’anni si occupa di sensibilizzazione sul fenomeno in Italia e di attuare diversi progetti in loco nei paesi coinvolti. “Piuttosto, la pratica viene svolta nei paesi d’origine, quando la famiglia torna per trascorrere le vacanze“. Le iniziative a salvaguardia delle donne e contro le mutilazioni genitali femminili sono state diverse e hanno coinvolto associazioni, istituzioni, privati cittadini. E un calo, in effetti, c’è stato, sebbene non abbia riguardato in modo omogeneo tutti i paesi coinvolti. Le ricerche dell’Unicef, condotte in 29 stati dell’Africa e del Medio Oriente, dimostrano come, rispetto a trent’anni fa, le bambine abbiano meno possibilità di subire mutilazioni genitali. Nessuna riduzione significativa, invece, in paesi come Ciad, Gambia, Mali, Senegal, Sudan e Yemen. In Somalia, Guinea, Gibuti ed Egitto 9 bambine su dieci, in età compresa tra i 15 e i 49 anni, hanno subìto questa pratica.
Un altro aspetto del fenomeno, emerso durante la ricerca, è la discordanza tra le opinioni personali e il peso sociale che se ne avverte in merito: nonostante siano in molti a rifiutarla, si ha spesso la sensazione di essere soli in questa battaglia a causa della mancanza di un confronto aperto sull’ argomento. Inoltre, sottolinea il rapporto, non solo le donne rifiutano questa pratica: in paesi come Ciad, Guinea e Sierra Leone, sono più gli uomini che le donne a chiedere la fine delle mutilazioni.
I metodi di contrasto possono essere molteplici. Da una parte, il dialogo e l’istruzione: più le madri sono istruite, meno rischi corrono le figlie di esservi sottoposte; più le ragazze frequentano la scuola, maggiore sarà la possibilità di entrare in contatto con chi le rifiuta. Inoltre, l’impegno di tutti gli attori- governo, organizzazioni non governative e comunità locali- affinché vengano promosse politiche contro le mutilazioni e, più in generale, contro la violenza sui bambini. Le leggi, infatti, non sono sufficienti: paesi come Camerun, Gambia, Liberia , Mali e Sierra Leone non hanno una legislazione in materia. Quella delle mutilazioni genitali femminili è una tradizione complessa, che riguarda aspetti sociologici e culturali delle tribù ed etnie che la praticano, come quelli di rendere la donna “pronta” per trovare marito e meno incline ad infedeltà coniugali. Ciò che si auspica è che la voce di chi rifiuta queste pratiche sia sempre più forte, e che arrivi sia dagli uomini che da donne sempre più consapevoli dei propri diritti e del proprio valore.
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