“Restituiteci i nostri figli”: decine di madri alla ricerca dei familiari scomparsi in Messico
Dopo vent’anni di ricerche, Emeterìa Martinez rivide di nuovo sua figlia nel novembre 2010 in Messico: Ana Marlén era partita dall’Ecuador verso il nord ad appena ventun anni, e di lei si erano perse le tracce. Emeterìa era una contadina ma soprattutto una madre, una delle pioniere del gruppo di ricerca dei familiari scomparsi in Centro America, che quest’anno affronterà il proprio viaggio per la nona volta ed ha deciso di dedicarlo proprio a lei. Emeterìa è morta a gennaio, ma il lieto fine della sua storia continua ad essere di esempio per tutte le altre madri che cercano i propri figli, spariti nel cammino che dall’America Centrale porta fino agli Stati Uniti. Donne come Blanca, che dal 2010 paga un debito di 4.900 dollari contratto affinché suo figlio Luis Roberto potesse conoscere un mondo migliore, ma che invece risulta svanito nel nulla; oppure come Priscila, che cerca sua figlia dal 2008, andata via di casa per inseguire “il sogno americano” e mai arrivata a destinazione.
Lunedì 2 dicembre il gruppo organizzato dal “Movimiento Migrante Mesoamericano” è partito alla volta del Messico: 40 madri provenienti da Guatemala, Honduras, El Salvador e Nicaragua che, fino ad oggi 18 dicembre, ultimo giorno di cammino, hanno toccato ventidue località di quindici stati, per un totale di 3.958 chilometri. Attraverso il blog http://caravanamadres.wordpress.com/ si possono seguire tutte le loro tappe. Con le foto appese al collo, chiedono al Messico che i loro ragazzi e le loro ragazze vengano ritrovati “vivi o morti”, che i criminali di mafia vengano giudicati e che il Messico si trasformi in un paese sicuro, per una “emigrazione senza violenza“. Secondo quanto riportato dal quotidiano El Paìs, il gruppo ha infatti documentato 70.000 sparizioni in trent’anni, numero che si è inasprito negli ultimi anni proprio a causa dei cartelli della droga. I loro nuovi affari avvengono a discapito di migranti senza documenti che ogni anno arrivano in Messico: o vengono sequestrati per poter richiedere il riscatto alle famiglie, oppure reclutati come manodopera, uccisi e sepolti in fosse comuni una volta esauriti i loro compiti. Un fenomeno che organizzazioni umanitarie come Amnesty International e Human Rights Watch continuano a denunciare, chiedendo al governo messicano un database completo e preciso sulle persone scomparse, in modo da agevolare ricerche finora condotte in modo superficiale, e soprattutto che i responsabili di queste sparizioni vengano puniti. “Non è una casualità le persone continuino a sparire in Messico” afferma Perseo Quiroz, direttore esecutivo di Amnesty International Messico. “Quando i responsabili non devono rispondere davanti alla giustizia dei loro crimini, l’impunità si trasforma in una garanzia di reiterazione dei reati. Non c’è messaggio più pericoloso dell’impunità“.
Oltre a quello di Emeterìa, ci sono state però altre storie a lieto fine: quattro figli sono stati ritrovati dalle proprie madri in questo gruppo. Non c’è soltanto il pericolo delle organizzazioni criminali: a volte entrano in gioco anche altri fattori, e l’incertezza è un peso davvero grande per queste donne. “Capita che i figli non si mettano in contatto con le proprie famiglie perché si vergognano di non essere riusciti ad attraversare il confine, oppure perché vengono da posti molto piccoli, dove non hanno il telefono o ancora perché perdono i numeri” ha dichiarato a El Paìs Marta Sànchez, portavoce del Movimiento Migrante Mesoamericano. Queste donne sono la dimostrazione di quanto l’amore di una madre per un figlio vada oltre l’età, il tempo e le difficoltà. Una madre non si dà mai per vinta e, come recita l’hashtag lanciato per questo viaggio, “la speranza è virale”.
(Foto Encarni Pindado da http://caravanamadres.wordpress.com/)
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