In carcere dopo l’aborto: una campagna per salvare le donne di El Salvador
Diciassette donne, di età diverse ma accomunate dallo stesso destino: sono finite in carcere per aver abortito, e devono scontare pene fino a 40 anni. Nel loro paese, El Salvador, l’aborto è considerato omicidio, anche se avviene per complicazioni durante la gravidanza o se la vita della donna è a rischio. L’interruzione di gravidanza è illegale dal 1998, ossia da quando la legge ha subìto ulteriori inasprimenti e sono state eliminate le eccezioni per cui era ancora concessa: violenza sessuale; gravi malformazioni del feto; rischio di morte per la donna. Nel 1999 è stato anche riformato il primo articolo della Costituzione politica di El Salvador, con il riconoscimento di “persona” sin dal concepimento.
Il primo aprile alcuni attivisti hanno lanciato una campagna, “Las 17” , per chiedere che queste donne vengano scarcerate. “Sono donne che hanno vissuto o vivono in situazioni di povertà” si legge sulla petizione. “La maggior parte di loro hanno avuto problemi durante la gravidanza, aborti spontanei o parti senza alcuna assistenza medica.” Cercando aiuto presso strutture sanitarie pubbliche, sono state denunciate, processate e poi condannate per omicidio aggravato. Dall’ospedale alla prigione: oltre al dolore per la perdita di un figlio, hanno dovuto affrontare anche quella di dover lasciare la propria famiglia e di non poter difendersi. Alcune di loro non avevano infatti le possibilità economiche per poter scegliere un proprio avvocato. “Avevo la sensazione di soffocare, non riuscivo a respirare” ha raccontato Cristina Quentanilla a The Guardian, riferendosi al giorno in cui è svenuta, incinta del suo secondo figlio. Stava avendo un’ emorragia e sua madre l’aveva portata in ospedale: ancora confusa e sotto effetto di anestetici, al suo risveglio si è ritrovata sotto interrogatorio della polizia per aver avuto un aborto spontaneo. Condannata a 30 anni di carcere nel 2004, quando ne aveva appena 18, è stata rilasciata nel 2009 dopo l’intervento della corte Suprema, che aveva definito la sua pena “eccessiva“. “Ora aiuto altre donne. È ingiusto che ci siano delle leggi che provocano così tanto dolore” ha sottolineato Cristina che, una volta in prigione, è stata additata dai media locali come un’assassina di bambini e ha perso il suo compagno.
Come Cristina anche Maria Edìs, la cui storia è stata raccontata in un reportage sull’aborto in El Salvador pubblicato dal “El Faro“, e che è invece morta in carcere. Maria Edìs come Manuela, morta di cancro mentre scontava una pena di 30 anni per il suo aborto dovuto a complicazioni durante la gravidanza: non aveva ricevuto alcuna assistenza neanche per la sua malattia. Lo scorso anno la vicenda della ragazza di 22 anni, conosciuta come Beatriz, ha commosso e indignato il mondo: malata di lupus e con un bambino anancefalico che non sarebbe sopravvissuto in nessun caso, ha ricevuto il diniego della Corte suprema all’aborto terapeutico. Un caso di cui si è occupata anche Amnesty International, terminato con un parto cesareo alla ventisettesima settimana che ha salvato la donna, ma non il suo bambino.
Secondo l’inchiesta realizzata dall’ “Agrupación Ciudadana por la Despenalización dell’Aborto” (ossia Coalizione per la depenalizzazione dell’aborto), 129 donne sono state indagate per reati connessi all’aborto tra il 2000 e il 2011, e 49 condannate (23 per aborto e 26 per omicidio). La maggior parte delle donne che subiscono la criminalizzazione dell’aborto sono giovani e di basso livello socio-economico: chi se lo può permettere, infatti, si reca all’estero o in una clinica privata per porre fine alla propria gravidanza. Anche l’organizzazione diffusa in diversi paesi sudamericani e in Spagna,”Catòlicas por el derecho a decidir” (Donne cattoliche che rivendicano il diritto di decidere) sta portando avanti da diverso tempo la lotta per la possibilità di scegliere se interrompere la propria gravidanza e di farlo in modo sicuro. Ma c’è anche chi approva e appoggia la severa legge di El Salvador. La fondazione “Sì a la vida“promuove “il rispetto della vita umana dal concepimento fino alla morte naturale”.
Intanto diverse persone hanno realizzato dei video in difesa e supporto della donne attualmente in carcere. Foto e messaggi, provenienti da diversi paesi del mondo, sono pubblicati sulla pagina Facebook di sostegno alla causa. Tutti chiedono libertà e offrono “un fiore per le 17 donne“.
(Foto da Facebook).
No Comments Yet!
You can be first to comment this post!